Morte al tir(anno) e vita al nuovo

Trasmetto quanto ricevuto dal nostro spanogamb, inviato sul pianeta silenzioso sulle tracce dell’Herzog, a beneficio degli amici di HM:

EX-HUMANS
sull’essenza del postumano
di Roberto Terrosi

Heidegger e la tecnica

Nella Questione della tecnica Heidegger distingue la tecnica in generale, con riferimento alla poiesis, dalla tecnica moderna.

Per prima cosa Heidegger accetta retoricamente, ma di fatto rifiuta, la concezione della tecnica come strumento in vista di fini. Egli infatti sembra in un primo momento approfondire il significato stesso della strumentalità, ma in realtà sta spostando il discorso sulla produzione attraverso il passaggio sulla causalità aristotelica. La strumentalità infatti è ripensata tra causa finale e causa efficiente. Questa operazione consente di fatto il passaggio da una strumentalità generale a una strumentalità consistente nella causazione di enti. Dunque la tecnica come semplice strumentalità includerebbe tutte quelle soluzioni intraprese per il raggiungimento di un determinato fine, ma in questo senso la tecnica non dovrebbe essere necessariamente implicata con la produzione di qualche oggetto. Il linguaggio per esempio potrebbe essere considerato una tecnica di comunicazione. La matematica una tecnica di computazione e la logica una tecnica di deduzione veritativa. Non è un caso infatti che Aristotele abbia chiamato Organon ciò che poi è stato definito “logica”, con chiaro riferimento al carattere strumentale di tale parte della filosofia.

Diversamente, Heidegger dirotta il discorso in modo sempre più esplicito verso l’ambito della produzione di beni e dunque verso gli artefatti.

Infatti il concetto che egli trae dalla causa aristotelica, che consiste nella strumentalità come pro-duzione, potrebbe ancora essere valido per gli altri tipi di strumentalità ora citati in quanto anche un sillogismo in un certo senso “pro-duce” una frase vera (o falsa); il linguaggio “pro-duce” un significato ecc. Gli esempi che però egli porta sono tratti dall’artigianato e la differenza posta a questo punto tra tecnica e natura ci fa capire che ormai siamo travalicati in un senso ben più specifico del concetto di produzione che è più affine a quello comune. La produzione si pone così come poiesis. Dunque la poiesis diviene un carattere essenziale della tecnica. Diversamente Platone, nell’esame della techne (Sofista, 219-225), concepisce la poiesis come carattere distintivo di una sola branca delle tecniche, in quanto egli pone da una parte le tecniche di acquisizione (ctetiche) e da un’altra le tecniche di produzione (poietiche), senza considerare che Platone ammette anche le tecniche che non sono legate all’acquisizione di alcunché come nel caso delle tecniche di combattimento. In questo senso la poiesis e la pro-duzione non sono il carattere proprio della tecnica in generale. Platone tra l’altro in questo modo getta le basi per la divisone classica delle technai dando origine a una tradizione che giungerà alla divisione latina delle Artes (in liberales e serviles); una divisione nella quale viene riaffermato il carattere non materialmente produttivo delle tecniche più elevate e nobili come la grammatica, la geometria, ecc. Dunque la tecnica come produzione di oggetti pone di fatto una deviazione verso un ambito di carattere utilitaristico e in particolare economico. Un altro punto di ripresa di temi classici su questo stesso versante è offerto dal confronto con la physis. La physis infatti è una forma di produzione anch’essa, però a differenza della tecnica essa, sostiene Heidegger, ha il movimento iniziale della produzione in sé stessa, mentre la tecnica lo ha in qualcun altro. Questa divisione riprende il tema classico della tecnica come imitazione della produttività spontanea della natura, unitamente al tema aristotelico della divisione tra praxis e techne presentata nell’Etica nicomachea, ma in un certo senso presenta anche la produzione della tecnica come una forma di alienazione della produzione naturale.

A questo punto è chiaro che Heidegger si sta spostando da una concezione generale della tecnica verso una dimensione fisicamente produttiva della tecnica e che dunque il discorso è stato portato su ciò che ordinariamente viene chiamato il dominio dell’artificiale, che, in quanto tale, è altra cosa dalla strumentalità in senso lato. Ma Heidegger ci sorprende anche, in quanto non pone questo dominio dell’artificiale sotto il segno della finzione, come accade spesso ancora oggi da parte di molte posizioni filosofiche “filo-umanistiche”, bensì come forma di disvelamento e dunque di verità. La produzione artificiale, ponendo in essere un nuovo ente e cioè portando un nascosto alla disvelatezza, si colloca tra i modi del disvelamento e dunque nell’ambito della verità. A questo punto ormai Heidegger parla di “fabbricazione producente” e quindi il riferimento alla produzione di cose materiali diviene sempre più esplicito.

Dopo questo egli ci propone un salto ulteriore nella direzione di una specificazione di carattere sempre più marcatamente “industriale” del suo modo di concepire la tecnica. La fabbricazione non è ancora abbastanza. Essa si adatta all’artigianato, ma l’industria moderna ha un carattere in più, che è dato dalla motorizzazione e dunque dallo sfruttamento delle risorse energetiche. Heidegger passa così dal paradigma meccanicistico a quello termodinamico in cui il consumo dell’energia introduce un elemento di deperibilità (o distruttività) e irreversibilità.

Egli allora introduce il tema della “tecnica moderna”. Il carattere distintivo della tecnica moderna non è tanto la pro-duzione, ma la pro-vocazione, “la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa essere estratta e accumulata” (p.11). La coltivazione ad esempio si pone ancora come cura e accudimento della terra. Diversamente l’estrazione del carbone si pone come pro-vocazione a riscaldare, e cioè a cedere col consumo l’energia in esso contenuta. In questo passo si descrive così il trauma del passaggio dalla cultura economica tradizionale, che si muove insieme alla natura, a quella industriale, che concepisce il rapporto con la natura in termini di sfruttamento di risorse. Il senso di questo sfruttamento viene espresso attraverso il termine (Stellen, richiedere) e dunque attraverso il concetto di Gestell in quanto impianto di estrazione e trasformazione delle risorse energetiche. La natura diviene una riserva di materiali da impiegare (Bestellen), che così vengono ridotti a Bestand (fondo, patrimonio, risorsa).

A questo punto Heidegger propone un’ulteriore deviazione, passando così dall’uomo artefice dello sfruttamento industriale all’uomo vittima “destinale” di questa sua stessa azione. L’uomo infatti è il “richiedente” della pro-vocazione mediante la quale il reale si disvela come Bestand. “Ma sulla disvelatezza – scrive – entro la quale il reale di volta in volta si mostra o si sottrae, l’uomo non ha alcun potere” (p.13). Questo sembra essere semplicemente un limite ermeneutico dell’uomo nei confronti della sua possibilità di cogliere la verità. Ma all’interno di questo discorso vige un’altra preoccupazione, che riguarda la capacità e la possibilità dell’uomo di esercitare un controllo sulla tecnica.

“Solo nella misura in cui l’uomo è già da parte sua pro-vocato a mettere allo scoperto le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi. Se però l’uomo è in tal modo pro-vocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancor più originario che la natura, del ‘fondo’?” (p.13). Questo passaggio può suscitare delle perplessità dal punto di vista della necessità delle argomentazioni, però il punto che ci interessa cogliere è capire perché Heidegger voglia sottolineare questa inversione di parti tra il pro-vocato e il pro-vocante e che cosa questo comporti. In altre parole, uno dei problemi che sembrano preoccuparlo è che la tecnica moderna sia fondamentalmente fuori controllo. A che cosa è dovuta questa mancanza di controllo? Evidentemente a qualcosa a cui l’uomo non può dire di no. Heidegger aveva prima portato il discorso su aspetti economici della tecnica intesa come produzione di oggetti e di estrazione di energia, ma ora non intende proseguire su questa linea che lo porterebbe ad esiti di tipo marxista. Egli invece insiste sulla questione della verità che si conferma come asse del discorso, anche se con qualche difficoltà nella logica dell’argomentazione. Il concetto di Gestell (suppellettile, scheletro, impianto, struttura di supporto, scaffale) viene diviso in Ge-stell dal significato letterale di Stellen come “porre” acquisendo così il significato di im-posizione. In tal modo egli compie un passaggio da un senso di oggetto tecnico familiare (lo scaffale), usato come strumento nella casa, a elemento che si caratterizza per una relazione di potere (l’imposizione). In questo modo si porta avanti una seconda conversione del concetto di tecnica: la prima dalla tecnica in senso lato alla tecnica materialmente produttiva, la seconda dalla strumentalità utilitaristica al legame coercitivo di potere che vede l’uomo come vittima.

L’uomo tramite la tecnica quindi pro-voca il cedimento di energia attraverso un atto di imposizione sulla materia. Ma allo stesso tempo esso è vincolato in questo rapporto essendo pro-vocato a pro-vocare, subendo quindi l’imposizione della tecnica. Come avverrebbe questa imposizione? La causa di questa im-posizione affonda nel comportamento impiegante dell’uomo verso la natura svolto attraverso la scienza. L’uomo chiede alla natura di presentarsi come “insieme pre-calcolabile di forze”. Tale im-posizione richiede dunque l’utilizzo da parte della tecnica della scienza. La scienza quindi è giustificata dall’essenza della tecnica moderna anche se nasce due secoli prima. Heidegger è ancora una volta in difficoltà sulle questioni di antecedenza storica. Si capisce comunque perché egli non avesse seguito la tradizione classica della tecnica come emulazione e dunque mistificazione tipica del carattere negativo del trickster e avesse assegnato alla tecnica un carattere inaspettatamente veritativo, che però doveva più tardi essere comunque criticato legandolo alla verità estorta alla natura dalla scienza.

L’uomo dunque è pro-vocato a disvelare il reale come “fondo” (Bestand), e cioè come risorsa consumabile, come una sorta di “carburante”, ed in ciò sta l’im-posizione che si pone come essenza della tecnica. Questo processo appartiene secondo Heidegger al destino del disvelamento e dunque alla storia della verità e dell’essere. In questo modo egli giustifica questa mancanza di controllo da parte dell’uomo come un fato, un carattere inevitabile del rapporto epocale con la verità. Questo destino si pone a sua volta come pericolo, anzi come il pericolo per eccellenza. Ma il fatto che esso si presenti come tale, comporta anche l’apertura di una possibilità di salvezza, e significa quindi che questo non è un destino inevitabile.

L’uomo si lascia cullare, attraverso il pensiero impiegante della tecnica, e a causa del potere dell’im-posizione sulla natura, nell’illusione di essere il signore della terra, rischiando di porre questo rapporto con la verità come l’unica realtà. Quindi il pericolo della tecnica non viene dalle macchine, ma dal modo in cui l’uomo esperisce la verità. Le macchine e i tecnici non sono in se stessi casi dell’im-posizione, ma del “fondo”, in quanto “impiegati” e “impiegati-impieganti”. “L’imposizione – ribadisce Heidegger – è il modo destinale del disvelamento”, in quanto essa significa che la tecnica ci porta a sviluppare una diversa concezione dell’“essenza”. Se si pensa la tecnica come strumento si rimane legati alla volontà di dominarla, mentre invece occorre instaurare un altro rapporto con la verità, magari ripensando la tecnica stessa in quanto techne e in quanto arte.

Heidegger tra umano e post-umano

I movimenti ecologisti e i movimenti di difesa dei beni culturali, delle culture tradizionali locali, hanno mostrato di opporsi alla concezione impiegante di riduzione della realtà a risorsa che era tipica dell’ideologia positivista del progresso.

Il problema fondamentale però sta nella presa d’atto di questo spossessamento dell’uomo, questa sua consapevolezza dell’illusorietà del suo potere sul reale, un reale che invece lo vede preda succube di un qualcosa che lo governa, qualcosa a cui non riesce a resistere. Infatti Heidegger ancora spera di fatto che l’uomo possa riappropriarsi della sua “dignità” ristabilendo un diverso rapporto con la verità, e che la partita possa giocarsi semplicemente su un confronto ontologico con il pensiero scientifico da cui dipende il pensiero impiegante e sfruttante della tecnologia industriale.

Rimangono però aperte alcune questioni. Infatti come primo punto appare evidente che Heidegger piega la ricerca dell’essenza della tecnica in una direzione preordinata di confronto polemico con lo statuto veritativo della scienza, la quale è posta in modo ambiguo nei confronti della tecnica. Il secondo punto sta nel momento cruciale, per noi, in cui egli attesta che l’uomo è soggetto (e poi dirà, destinato) a divenire mero “fondo” e quindi semplice risorsa sfruttabile egli stesso da parte dell’imposizione della tecnica per il solo fatto di aprirsi a questa dimensione veritativa dell’esperienza. Questo è infatti il punto che in un certo senso segna il passaggio dall’umano al post-umano, in quanto l’uomo si trasforma da soggetto a risorsa sfruttabile (“fondo”, Bestand).

Allora intanto potremmo chiederci: che significa il controllo umano sulla tecnica? Heidegger già in questa sede parla del fatto che non esiste un congresso di scienziati che possano decidere dell’impiego della scienza. Ma più esplicito è un saggio degli anni 50 sull’Alienazione dell’uomo nell’era atomica. Qui Heidegger si confronta ancora più da vicino con le implicazioni postumane della riflessione sulla tecnica. Egli affronta il tema dell’enorme potenziale distruttivo dell’atomica da una parte e della possibilità di generazione artificiale dell’uomo per opera della bio-tecnologia dall’altra. Egli in questa occasione ritorna sulla constatazione della mancanza di controllo in questi termini.

“Nessun singolo uomo, nessun gruppo di uomini, nessuna commissione, per quanto composta dai più eminenti tra gli uomini di stato, gli scienziati e i tecnici, nessuna conferenza di leaders economici e di capitani dell’industria ha il potere di frenare o di dirigere il corso storico dell’era atomica. Nessuna organizzazione composta soltanto da uomini è in grado di giungere al dominio su quest’epoca”. (p.57)
Lo stesso tipo di considerazione è ripetuta anche altrove. Evidentemente Heidegger ha un’idea del controllo della volontà umana sulla realtà, basata sull’espressione di un potere organizzato e cioè sulla politica. Questa politica non deve essere espressa per forza da presidenti e deputati, ma da qualsiasi forma di rappresentanza a cui è riconosciuta una validità istituzionale nei vari settori. Il controllo umano dunque si identifica con il controllo politico, il dominio dell’umano è dunque quello del potere politico, alla cui base si pone la volontà. Dalla parte opposta invece ci sono le dinamiche impolitiche e inconsce del comportamento sociale e culturale che hanno alla loro base la dipendenza.

Heidegger però non distingue la volontà dalla dipendenza, e preferisce parlare di una “volontà dominata” dal calcolo e dalla pianificazione. Egli parla di questo aspetto come di una sorta di ritorno all’istinto, e quindi alla condizione animale pre-mondana. A questo riguardo occorre introdurre la distinzione heideggeriana tra “pensiero calcolante” proprio della tecnica e “pensiero meditante” proprio della riflessione.

Infatti il pensiero calcolante è ristretto alle finalità, mentre il pensiero meditante ha invece un carattere complessivo, per cui è l’unico realmente degno di essere chiamato tale, tanto da ritenere che il pericolo dell’affermazione del pensiero calcolante come pensiero unico sia più grave dell’autodistruzione dell’uomo tramite l’atomica. Questo perché con l’atomica la distruzione dell’uomo sarebbe ontica (riguarderebbe cioè gli uomini in quanto enti) mentre tramite la distruzione del pensiero si giungerebbe alla distruzione ontologica dell’uomo (e quindi la sua possibilità di porsi come Dasein).

Perciò l’istinto come situazione tipica del “post-umano” (lui dice “sovrumano”) e del “sub-umano”, è la situazione in cui il pensiero è ridotto a calcolo e pianificazione e il lavoro è ridotto a prestazione.

Heidegger aveva già parlato dell’istinto in relazione alle possibilità di mondo degli animali sostenendo che questi ultimi siano “poveri di mondo”. L’uomo nell’aperto si distanzia dagli enti rapportandosi ad essi in quanto tali. L’animale invece è condizionato dall’istinto e si rapporta al suo ambiente (Umwelt) relativamente all’azione dei suoi disinibitori. In tal modo l’animale non ha un vero mondo perché egli è semplicemente assorbito dal rapporto con il suo ambiente e non ha la possibilità di sperimentarlo in una condizione di apertura e quindi gli è preclusa la possibilità di un abbandono di esso (in quanto esso è piuttosto abbandonato al suo ambiente). Agamben, che ha dedicato a questo argomento alcune intense pagine, sostiene che l’unica situazione in cui Heidegger intravede una prossimità tra la condizione dell’uomo e quella dell’animale è nella condizione di noia profonda, in cui l’esserci è reso stolido dalla mancanza di stimoli e finisce con l’essere assorbito dal suo ambiente. In realtà in questi ultimi scritti viene delineata una ben più decisiva e – per Heidegger – inquietante somiglianza tra l’uomo e l’animale nel pensiero strumentale della prestazione tecnica. Questo tipo di pensiero è ridotto a istinto proprio perché è completamente ridotto all’esercizio della sua funzione, che porta l’esserci ad essere assorbito in qualcosa che non gli si apre come mondo (Welt), ma lo condiziona come ambiente (Umwelt). Per questo motivo in termini heideggeriani la condizione essenziale del postumano non è diversa dal quella del subumano. La differenza sta semplicemente nel tipo di ambiente e nel grado di complessità delle prestazioni. L’ambiente del postumano è infatti l’artificiale, in quanto contesto di produzione di enti e di sfruttamento del fondo. Nel postumano le prestazioni non sono semplici risposte a stimoli biologici, ma sofisticate procedure che però riescono ad prevalere sulla fondamentale apertura dell’esserci all’essere, riducendo l’esistente ad essente, a cosa, fondo, oggetto di im-posizione e cioè di sfruttamento.

Il rimedio a tutto ciò dunque sta solo nel pensiero dell’abbandono delle cose e del mistero della tecnica che dovrebbero rimuovere i rischi della dipendenza (che si sostituisce alla libera volontà) e della ristrettezza del pensiero tecnico (attraverso l’apertura sull’incalcolabile). In questo modo l’uomo può salvarsi. L’abbandono infatti reintroduce una possibilità di scelta che riporta il post-uomo in una condizione di trascendenza rispetto agli enti, e dall’altra parte il mistero della tecnica porta e spinge la tecnica stessa verso un orizzonte nuovamente mondano in cui essa non si presenta come necessità indiscutibile, ma come problema o addirittura enigma.

Di questa via di salvezza soggettivistica e ancora umanistica Heidegger stesso sembra non essere più convinto negli ultimi anni della sua vita. Infatti nell’intervista a «Der Spiegel» egli ribadisce quasi tutte le tesi sulla tecnica a eccezione di quest’ultima, in luogo della quale sostiene che ormai solo un dio ci può salvare. In una situazione che è fuori controllo della libera volontà dei singoli o della loro espressione coniugata nella politica, la soluzione può essere solo impersonale così come impersonale è il problema. Per questo motivo egli sostiene l’impotenza del filosofo, che si può solo limitare a suggerire una disposizione di accogliente attesa e dunque di passività.

D’altronde egli sembra rendersi conto che tutta la partita dell’essere, tanto nel suo disvelarsi, quanto nel suo abbandono, avviene tramite gli uomini, ma non per volontà degli uomini.

Quindi qui abbiamo un doppio significato dell’atteggiamento di Heidegger riguardo a ciò che possiamo chiamare postumano. Da una parte un postumano come condizione epocale di perdita dell’umanità dell’uomo a causa del declino del pensiero meditante in favore di quello calcolante, e dall’altra parte un livello di concezione postumana che si pone come acquisizione di una centralità filosofica non umana, non soggettiva e non politica, già introdotta nella Lettera sull’umanismo e portata alle estreme conseguenze in questa tarda intervista.

Quale possibilità si offre e dunque qual è la conseguenza dello sfondamento dell’orizzonte della soggettività e della libera volontà umana? Il ritorno al sacro? Se di sacro si può parlare occorre specificare che si dovrebbe trattare di un sacro che non può più fare affidamento a un dio personale, personalizzazione e sussunzione metafisica di tutto l’essere in un unico ente. Il dio a cui allude Heidegger è un divino post-metafisico che si gioca tra presenza e assenza e tra manifestazione e nascondimento. Heidegger d’altronde si era dichiarato ateo e i riferimenti agli dei erano sempre stati mediati dalla poesia. Inoltre nella stessa intervista egli dichiara che bisogna predisporsi anche alla assenza di questo dio. Quindi si tratta di una sorta di non-dio. Questo non-dio è però l’unico che può resistere allo strapotere della tecnoscienza, e riaprire lo spazio per l’azione ontologica dell’esserci.

Sull’essenza del postumano

Con questo commento quindi intendiamo mostrare che le osservazioni critiche indirizzate da Heidegger alla tecnica, che hanno prodotto negli ultimi anni una demonizzazione di quest’ultima da parte di molti suoi interpreti, non riguardano la tecnica in quanto tale, ma una dimensione della stessa, in cui essa non è nient’altro che un aspetto intrinseco e limitato all’industrializzazione capitalistica. Le critiche mosse alla tecnica andrebbero allora reindirizzate alla logica profonda dell’economia industriale e del consumismo ad essa inestricabilmente connesso. Ciò significa che l’uomo non rischia di essere consumato in qualità di Bestand dalla tecnica, semplicemente in quanto tale, ma che esso è destinato a divenire “carburante” per una dimensione dell’economia industriale che ormai è fuori controllo rispetto al regime delle finalità umane comuni, che costituiscono l’ambito di riferimento della politica.

In effetti, come ci fa notare Heidegger con il suo uso del concetto di istinto, il postumano si pone come un effettivo ritorno alla necessità di automodificazione dell’uomo in vista dell’adattamento all’ambiente, analogo, sebbene non uguale, a quello sperimentato nella sua condizione pretecnologica e, in un certo senso, animale. Da questo punto di vista il problema non può essere fondato nell’essenza della tecnica, perché la tecnica, consentendo all’uomo di modificare il suo ambiente per adattarlo a sé, invece di modificare geneticamente se stesso per adattarsi all’ambiente, ha permesso la trasformazione dell’ambiente in mondo, ed ha permesso quello svincolamento dal condizionamento ambientale che è la condizione necessaria all’acquisizione del carattere trascendente dell’uomo nei confronti del dominio degli enti. Lo svincolamento dalla semplice necessità ha infatti posto in luce la decisività della scelta, consentendo così il passaggio da un orizzonte di sensi a un orizzonte di senso.

Il carattere poietico della tecnica quindi non è solo quello di creare enti, ma anche quello di creare mondo. Com’è stato possibile allora che a un certo punto la tecnica abbia smesso di creare mondo e abbia cominciato a divorarlo? Forse il problema oggi è che la tecnica non lavora più per il Dasein, ma lavora per “qualcos’altro”. Forse il problema è che questo mondo umano ha messo al mondo qualcosa che l’uomo, sia nella sua dimensione individuale sia politica, non riesce a controllare, in quanto è incapace di “abbandono” verso di esso (perché al contrario si abbandona ad esso), e quindi è incapace di quel distacco che può far passare un condizionamento da semplice processo operante a Sache, questione, problema, portandolo nel dominio degli enti e del sapere. Questo significa che in quanto tale questo “qualcosa” agisce nel mondo e agisce sul mondo, limitandolo, senza necessariamente apparire nel mondo. Quindi senza la distanza dell’abbandono ci è anche impossibile renderci conto di cosa ci condiziona (credendo magari di essere più liberi che mai). Esso può essere visto nella misura in cui può essere abbandonato. Il suo abbandono equivale in questo caso a quella che Foucault chiamerebbe la sua problematizzazione (anche se la problematizzazione non comporta giocoforza un abbandono).

Che cos’è quindi questo qualcosa che non è neanche la tecnica in se stessa, ma che è congiunto alla tecnica nel suo porsi come necessità? La risposta ci viene in parte anche dallo stesso Heidegger nel nel suo ambiguo rapportarsi alla tecnica dal punto di vista dell’estrazione, della trasformazione, della produzione, della prestazione e del consumo. D’altronde già oggi la logica economica del mercato è concepita al pari di una necessità naturale a cui nessun governo e in generale nessuna istituzione politica può opporsi.

Per fare un esempio, il WTO è un organismo internazionale che prevede lo sviluppo del mercato a detrimento della sovranità politica degli stati. Ciò nonostante gli stati, pur consapevoli delle limitazioni del potere politico che così sopraggiungono, vi aderiscono. Perché una tale azione di suicidio per la sovranità politica? Perché altrimenti questi stati rischierebbero di essere tagliati fuori dalle possibilità di sviluppo economico che si rifletterebbero ben più velocemente sul consenso popolare verso la classe politica al potere. In altre parole, se lo stato non compromette la sua sovranità, compromette la sua governamentalità, in quanto il ceto dirigente, mancando lo sviluppo economico, perde il consenso e ciò porterebbe solo alla presa del potere di una dirigenza più favorevole all’organizzazione del mercato mondiale. Si tratta di una sorta di selezione automatica del più adatto e dunque di una sorta di meccanismo evolutivo. È un circolo vizioso in cui il potere politico diviene sempre più vulnerabile e schiavo nei confronti delle necessità economiche. Il sistema economico in queste condizioni non è vincolato a un consenso politico, che può essere dato invece per scontato. In questo modo esso diviene una macchina che si autoalimenta. Non a caso, alcuni economisti hanno già paragonato il sistema economico a un sistema vivente. In queste condizioni infatti esso acquisisce le proprietà di un sistema “autopoietico”. Esso in quanto tale è trascendente nei confronti della politica e dell’umano in quanto attore della politica. Le sue funzioni sono radicate in risposte automatiche che gli provengono dall’umano, tale per cui esso lo assorbe come ambiente e lo sussume come risorsa. Non dipendendo il sistema economico dalle risposte dell’uomo (che lo ripetiamo sono scontate) e dipendendo invece l’uomo dalle risposte del mercato, è l’uomo che diviene di conseguenza funzionale al mercato e non viceversa; ragion per cui quest’ultimo deve trovare il modo di adattarsi all’ambiente-mercato in qualsiasi modo e soprattutto tramite la tecnica che rivolge necessariamente su se stesso. In questo modo la tecnica, rivolgendosi sull’uomo come “fondo” o “materiale umano”, diviene per l’uomo divoratrice di mondo e non più creatrice.

Il postumano allora consiste nel soggiogamento dell’uomo all’economia industriale tecnologica, rispetto alla quale l’uomo deve tornare ad adattarsi, essendo stato ormai spossessato dello scettro che gli consentiva di utilizzare la tecnica come strumento politicamente indirizzato alla costruzione del mondo. Ora il “mondo del mercato”, come l’ambiente animale a cui l’animale è costretto ad adattarsi, costruisce adattivamente l’uomo, che torna invece a sua volta a giocare un ruolo di strumento. L’uomo quindi si autotrasforma (esteticamente con la chirurgia estetica, fisicamente con il body building, psicologicamente attraverso le psicotecniche ecc.) per essere più performativo e più competitivo. In cambio avrà il successo.

Il mondo moderno aveva posto degli oggetti stabili come mete della volontà umana. Si pensi a Christopher Marlowe che aveva identificato nella ricchezza, nel potere sovrano, e nella conoscenza le mete della tracotante volontà umana. Si trattava di elementi fissi: la ricchezza era concretizzata materialmente nell’oro, il potere era concretizzato istituzionalmente (e persino sacralmente) nella regalità e il sapere era concretizzato teoreticamente in un verità unica.

Oggi il successo non è nulla di fisso; è circolazione e rispecchiamento. Esso è consenso, per cui promette potere nella misura in cui impone dipendenza, dà ricchezza nella misura in cui richiede dispendio, e fa scempio della conoscenza non solo trasformandola in qualcosa di relativo, ma soprattutto riducendola a una pratica di retorica asservita e adulatrice attraverso la comunicazione anoggettuale e scandalistica.

Il mondo del postumano allora non è il regno della biopolitica che si costituisce come una grande macchina di governo, che pretende di controllare e di gestire tutti i dettagli della vita sia esperienziale che biologica (alla biopolitica interessano sia il bios che la zoè). Tutto questo apparato rischia presto di diventare una presenza residuale, le vestigia di un vecchio potere, nei confronti di un qualcosa che, in parallelo con la biopolitica, potremmo chiamare la bio-economia: cioè un’organizzazione, uno sfruttamento e una traduzione in termini economici e di mercato di ogni aspetto della vita e di ogni aspetto dell’esistenza. I legami del mondo dell’uomo sono fatti di affetti, interessi, amori, odi, ecc. Ebbene, in ognuno di questi legami deve entrare il business. Da ogni sentimento, ogni emozione deve poter essere tratto un profitto. Tutto il mondo deve essere riscritto in termini di mercato, produzione e consumo. Il regno dell’uomo era un regno di cause e di effetti, di finalità e volontà, il regno della bio-economia è quello della circolazione, delle reti e dei sistemi in cui nulla è stabile, come nel motore in cui tutto gira bruciando energia e dunque risorse.

Il modo in cui la bio-economia trasforma il mondo dell’esserci in un ambiente, trasformando così l’esserci in un ente tra gli altri è inoltre quello di distruggere la sua razionalità. Il presupposto marxista e forse anche heiddegeriano è che l’uomo sia consumato come produttore in quanto oggetto di una estrazione di prestazioni, alla stessa maniera che se fosse un fondo, attraverso il lavoro. L’uomo però può fare a meno del lavoro se qualcun altro o qualcos’altro lo fanno per lui. Ciò a cui l’uomo non riesce a dire di no è il consumo. L’uomo è in grado di problematizzare, mettere tra parentesi, gestire e governare la sua condizione di lavoratore, mentre non è in grado di farlo rispetto alla sua condizione di consumatore. L’unico criterio regolatore non è certo la problematicità, bensì la disponibilità economica, che è ciò con cui il mercato compra il nostro lavoro e che quindi ci incatena ancora di più alle sue logiche. L’organizzazione imposta dalla bio-economia quindi si fonda sull’idea di razionalizzare l’offerta e irrazionalizzare la domanda. Questo significa che esso pone una razionalità meramente strumentale al suo interno saldata a una “solida” irrazionalità all’esterno. In questo modo il pensiero meditante è presto emarginato e tendenzialmente eliminato. Se la battaglia del XIX e del XX secolo si è giocata nelle fabbriche, quella del XXI secolo si gioca nei supermercati e non potrà essere vinta con le sole armi della politica.

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